Un volume che ricostruisce la vicenda umana e professionale dello psichiatra che ha colto nella malattia mentale anche una questione sociale e politica. Intervista all’autore Paolo Francesco Peloso
di Katia Turri
Un nuovo libro su colui che ha portato alla chiusura dei manicomi. Si intitola "Franco Basaglia, un profilo. Dalla critica dell’istituzione psichiatrica alla critica della società" (Carocci 2023) e l’autore è Paolo Francesco Peloso, psichiatra che lavora nei servizi pubblici in Liguria. Nel volume si ricostruisce la vicenda umana e professionale di Basaglia, che ha colto nella malattia mentale anche una questione sociale e politica. Una volta chiusi gli ospedali psichiatrici, il malato si imbatteva di nuovo in quella società in cui aveva avuto origine la sua esclusione e in cui subiva nuovi processi di emarginazione, ingiustizie, ipocrisie. La critica radicale di Basaglia all’istituzione psichiatrica investe allora la società stessa che l’ha generata e la sua lotta anti-istituzionale incontra quella degli operai, degli studenti, delle donne e dei popoli oppressi per un mondo più libero e più giusto. Qui di seguito gli abbiamo rivolto alcune domande all’autore.
Perché un altro libro su Basaglia?
“Certo sul lavoro e il pensiero di Franco Basaglia è stato scritto molto in oltre quarant’anni dalla sua morte. In primo luogo da lui stesso, poi dai suoi collaboratori, poi da biografi e storici: Babini, Foot, Colucci e Di Vittorio, Pivetta ecc. Io gli ho dedicato un primo libro due anni fa, Ritorno a Basaglia? La deistituzionalizzazione nella psichiatria di ogni giorno (Erga 2022) con il quale ho inteso approfondire da una parte il lavoro degli psichiatri che, nel corso della storia, avevano anticipato alcune delle sue idee e, in direzione opposta, verificare quanto un “ritorno a Basaglia” e al suo tempo, un momento particolarmente fecondo e importante per la psichiatria, sia oggi necessario, e quanto sia oggi praticabile. Si parla pertanto della psichiatria dei suoi tempi e di quella dei nostri; di lui e di me. L’avvicinarsi del centenario della nascita di Basaglia ha spinto molti a scrivere di lui e, per quel che mi riguarda, io l’ho fatto con questo secondo volume nel quale sono protagonisti Basaglia e la società italiana dei suoi anni. Questo libro dunque è un dialogo, tra quanto Basaglia scrive della società, italiana ma non solo, e quanto la società, attraverso i giornali che ne sono espressione, scrive dell’uomo Basaglia, della sua capacità di darsi in modo autentico e alla mano nell’incontro, delle sue idee, del suo lavoro, della Legge che porta il suo nome e della misura nella quale lo Stato e le Regioni l’hanno applicata e la applicano. L’accoglienza che in questi giorni il libro ha incontrato oltre che nella mia città a Bologna, Parma e Senigallia mi ha molto emozionato, e mi ha convinto del fatto che di Basaglia, la sua lotta e il suo lavoro, ci sia ancora molta voglia e molto bisogno di parlare”.
Lei sostiene che Basaglia non abbia criticato solo l'istituzione psichiatrica ma anche la società in cui viveva. Cosa intende?
“Tra la pubblicazione dei due libri principali che ha scritto con il suo gruppo passa solo un anno, dal ’67 al ’68, ma sembrano passati decenni. La logica del primo, Che cos’è la psichiatria?, infatti, è ancora interna all’istituzione psichiatrica, mentre nelle prime pagine de L’istituzione negata, scritte pochi mesi dopo, nonostante il fatto che l’ospedale psichiatrico sarebbe durato ancora dieci anni, il pensiero di Basaglia lo dà già per oltrepassato. La sua critica infatti non si accontenta più di contestare il carattere antiterapeutico dell’ospedale psichiatrico, ma investe la società che è alla base dei meccanismi di esclusione e delle ingiustizie che su un versante producono l’internamento e sull’altro rendono difficile la dimissione. Basaglia rifiuta il mandato che la società attribuiva (e forse attribuisce?) allo psichiatra, quello di essere un custode, un garante dell’esclusione e lo invita a sottrarsi a questo mandato ambiguo per divenire l’amico, il portavoce, il sindacalista del malato. Lo psichiatra deve quindi ovviamente lavorare con il malato perché questi si renda più compatibile possibile con le esigenze della vita sociale, moderando la tendenza all’autismo che è a volte parte della sua malattia, ma deve al contempo ‘violentare’ la società, come scrive Basaglia in un’occasione, perché essa impari a fare posto al suo interno alche alla persona che soffre di una malattia mentale, e con essa agli altri esclusi”.
Il pensiero di Basaglia è ancora attuale? La sua idea di psichiatria può dirsi raggiunta o mancano dei tasselli?
“Credo che il pensiero di Basaglia, per i dubbi che pone sia alla psichiatria che alla società, sia oggi più che mai attuale, e anzi un ‘ritorno a Basaglia’ sia assolutamente necessario. Quella di Basaglia è una psichiatria in dubbio, che non cessa mai di interrogarsi e di interrogare la società, su se stessa e sulle sue pratiche. La sua idea di psichiatria è destinata per questo a rimanere sempre dubbiosa, insoddisfatta, aperta e non potrà certo mai dirsi raggiunta. Ci sono tante cose, credo, che evocherebbero in lui oggi la stessa indignazione che provò per l’ospedale psichiatrico: l’insufficiente investimento, spesso, nel campo della salute mentale, l’alto tasso di inoccupazione e inattività, di noia cioè, cui sono condannati molti dei nostri pazienti, l’uso disinvolto che in alcuni luoghi viene fatto della contenzione fisica, le troppe vite consegnate per anni a una condizione di esistenza artificiale durante i trattamenti prolungati nelle strutture residenziali, tanto per dirne qualcuno. Fin qui per ciò che riguarda il nostro specifico. Ma non lo indignerebbero di meno la condizione delle carceri, dove il tasso di suicidi è raddoppiato negli ultimi trent’anni, o il fatto che una parte dei poveri possa essere rinchiusa in istituzioni totali solo per il fatto di essere straniera, o essere lasciata annegare, o essere consegnata irresponsabilmente dal mondo alla fame e alla guerra, come accade oggi nella striscia di Gaza senza che il grido dell’indignazione si levi
sufficientemente alto per cercare d’impedirlo. Io creo che il nostro mondo piacerebbe a Basaglia ancora meno di quanto gli piacque quello in cui visse e soffrì le ingiustizie”.
Nel suo libro lei accenna al concetto di psichiatria democratica. Che cos'è?
“Psichiatria Democratica è il nome dell’organizzazione che coloro che si riconoscevano nella pratica antiistituzionale e nelle idee di Basaglia, a partire dal bolognese Gian Franco Minguzzi che ne fu il primo segretario, si diedero nel 1973, della quale sono stati perciò festeggiati l’anno scorso i primi cinquant’anni con un volume collettaneo di cento autori curato da Emilio Lupo, al quale mi ha fatto piacere l’invito a partecipare con un contributo. Più in generale, però, psichiatria democratica – scritto in questo caso minuscolo – è uno dei nomi che si può dare alla psichiatria ispirata al lavoro e al pensiero di Basaglia. Che è appunto una psichiatria, perché Basaglia non ha mai rinnegato il suo essere uno psichiatra, ma semmai ha pensato a un modo diverso (più pieno?) di esserlo. Ed è democratica, innanzitutto perché la visione dell’essere umano e della società nella quale matura è quella della tradizione antifascista e dalla Costituzione. E poi, sia perché lo è nei fini, che consistono nel voler dare voce e dignità a tutti a prescindere dal loro potere nell’assemblea e nella società; che anche perché lo è nei mezzi, in quanto aprire spazi nei quali l’altro, l’ultimo, il più debole, il malato possa affermare la propria dignità, la propria presenza, il suo punto di vista, la sua rabbia anche almeno fino a un certo punto, è considerato uno degli strumenti fondamentali del lavoro psichiatrico. La democrazia, quindi, è per la ‘nuova psichiatria’ di
Basaglia sia il contesto culturale e politico nel quale si colloca, che un fine, che un mezzo”.
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