Le condotte parasuicidarie negli istituti penitenziari sono state al centro di un seminario online organizzato dall’Ausl di Parma. Professionisti della salute mentale, operatori e volontari del sistema detentivo hanno esplorao le cause sottostanti tali comportamenti, i fattori di rischio e di protezione, gli impatti psicologici ed emotivi
di Michela Trigari
PARMA – “Mi taglio per sfogarmi quando c’ho tanta rabbia e sto male dentro. Mi faccio del male e sto meglio. Butto il sangue amaro...”. È solo una delle tante spiegazioni che accompagnano gli atti di autolesionismo in carcere. Le condotte parasuicidarie, infatti, anche se non portano a togliersi la vita, rappresentano comunque un problema serio e complesso all’interno degli istituti penitenziari. Basti pensare che solo a Parma, nei primi sette mesi del 2023, ci sono stati 121 atti di autolesionismo e 16 tentati suicidi su 655 detenuti. Il rischio di suicidio tra i carcerati infatti è alto: circa 18 volte in più rispetto alle altre persone. Basti pensare che, solo nel 2022, in Emilia-Romagna ci sono stati 9 suicidi negli istituti di pena (84 il dato nazionale). I detenuti stranieri, poi, ricorrono agli atti autolesivi in misura doppia rispetto a quelli italiani: non sapendo bene la lingua, il loro disagio si riversa sul corpo.
Questi argomenti sono stati al centro di un seminario online organizzato in settembre dall’Ausl di Parma. Professionisti della salute mentale, operatori e volontari del sistema giudiziario detentivo hanno esplorato le cause sottostanti tali azioni, i fattori di rischio e di protezione, gli impatti psicologici ed emotivi. In Emilia-Romagna esite il Piano regionale di prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti-Linee guida 2018, che seguendo le indicazioni del Piano nazionale caldeggia un lavoro congiunto e trasversale, integrato e multidisciplinare tra area sanitaria e penitenziaria per presidiare le situazioni potenzialmente stressanti – come per esempio i colloqui, le udienze, i trasferimenti, le condanne – e agire al riguardo.
Per Roberto Cavalieri, Garante regionale delle persone sottoposte a misure limitative o restrittive della libertà personale, dietro i comportamenti autoaggressivi dei detenuti non c’è solo una matrice di tipo clinico, ma anche e soprattutto situazioni di povertà e di mancanza di relazioni familiari o amicali. “Il carcere è un luogo di sofferenza, spesso anche per gli operatori, un luogo che non esiste nell’agenda politico amministrativa degli enti locali”. A volte incide anche l’organizzazione interna. Secondo l’Equipe di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche del penitenziario di Parma, “non si tratta solo di sofferenza psichica, di disturbi antisociali o di personalità, ma di sofferenza su cui incidono soprattutto fattori sociali e ambientali come il sovraffollamento, l’isolamento, l’uso di sostanze, l’abuso di farmaci, la fragilità emotiva”. Tra le soluzioni prospettare durante l’incontro sono emerse la formazione degli operatori, programmi individualizzati per i detenuti a rischio suicidio e monitoraggio dei singoli casi, un sistema di comunicazione più umano e più attento ai segnali, dare spazio anche alle religioni non cattoliche.
“Gli istituti di pena sono parte della nostra comunità. E’ il messaggio che abbiamo voluto dare con questo convegno”, conclude Pietro Pellegrini, direttore DAI-SMDP dell’Ausl Parma. “Ma serve un grande lavoro interistituzionale, con l’apporto dell’Università, del Terzo settore e del mondo del lavoro, per costruire prospettive di senso e di speranza per la popolazione detenuta”.
Qui i dati nazionali dell'Osservatorio Antigone sul carcere su sanità ed eventi critici
https://lookerstudio.google.com/u/0/reporting/67110e79-ceab-4a0c-8a53-b14ea9c98c0f/page/p_yp30lrynoc